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UN’ALTRA VISIONE DELLA SOCIETA’

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Le alternative all’eccesso di consumi e alla produzione intensiva e industriale, che saccheggia le risorse del pianeta creando danni ed effetti collaterali incalcolabili, minando la stabilità di milioni di esseri umani, sono state messe in campo. Una crescita infinita, soprattutto dal punto di vista ambientale, porta ad un punto di non ritorno.

Miliardi di esseri umani, consciamente o meno, stanno compromettendo gli equilibri della natura, in alcuni casi in modo irreversibile. Sempre più, economisti, scienziati, politici, ecologisti e movimenti dal basso, da ogni parte del mondo, concordano sul fatto che si rende necessaria una riduzione dei consumi e l’attuazione di un nuovo modello economico alternativo a quello attuale.

Lentamente una certa coscienza si sta facendo strada in questa situazione critica, e spesso questo cambiamento parte dal basso, nel contesto locale, operando molte volte con risorse economiche scarse e con pochi mezzi a disposizione. La forza e il potere del cambiamento stanno proprio all’interno delle comunità locali di cittadini che cambiano atteggiamento verso il consumo, i bisogni primari, le relazioni sociali. Che questo sia la soluzione alla crisi potrebbe essere definito utopia.

Chiaramente il mondo non si cambia in poco tempo, poiché la Storia insegna che i cambiamenti sono imposti dalla necessità, dal maturare delle coscienze, dall’elaborazione di un progetto comune. La Storia non è un processo lineare né una serie di eventi meccanici o slegati tra di loro. La Storia ha un incedere fatto di tendenze e controtendenze, progressi e regressi, idee, movimenti sociali… ma qualcosa, dal basso, ha iniziato a muoversi e a diffondersi. E spesso proprio a partire da una risorsa fondamentale, quale è il cibo.

Nutrirsi in maniera sana e creare una filiera alternativa all’industria alimentare ortodossa, introducendo molti elementi che creano una nuova idea di welfare e integrando nuovi modelli di pensiero, ha dato spinta a molti progetti locali che, ogni giorno, attuano processi di sviluppo all’interno delle comunità, riaccendendo la partecipazione, il dialogo e lo scambio di saperi e pratiche.

Da tempo, l’idea della coltivazione biologica, senza la deriva che poi in alcuni casi ha assunto, è considerata una pratica che può indicare delle alternative valide ad un modello intensivo di produzione industriale. Il fatto che il modo di produrre, in questo caso i metodi di coltivazione, sia un fattore contenente troppi punti critici è percepito da sempre più persone.

Certamente la diffusione della coltivazione biologica, rispettosa dell’ambiente e dei cicli naturali, è già di per sè un aspetto del desiderio di una società diversa. Comporta la necessità di considerare le proprie vite come degne di essere vissute e valorizzate, in accordo con la natura, e questo è impossibile senza un’idea di cooperazione e collaborazione. Si ricava un’idea diversa sullo scopo del lavoro, del consumo, del rifiuto di certi modelli preconfezionati.

Il rifiuto non deve essere abbinato a pessimismo o nichilismo, quindi per evitare la sterilità e la deriva di un rifiuto infantile, è opportuno ragionare sulle possibili soluzioni alternative a ciò che propone il pensiero unico, al bisogno indotto, al ricatto di un mercato che agisce esclusivamente per il profitto di pochi.

In questo periodo storico, dove si intrecciano nuove povertà, migrazioni forzate, bolle finanziarie, cicli economici in esaurimento, gli esseri umani devono necessariamente esprimere altre risorse, mettere in atto nuovi modelli e meccanismi, ricucire relazioni di prossimità: è importante ribadire questo concetto, poiché il biologico è ultimamente diventato di moda, la deriva a cui prima accennavamo.

Lo si trova, infatti, anche nei supermercati, alcune multinazionali hanno il loro settore bio. Seppure sia importante che anche le grandi aziende si muovano verso un’agricoltura sostenibile, è altresì evidente il rischio che il mercato possa utilizzare facilmente concetti di per sé positivi, puntando sulla genuinità del prodotto e sulla salute, quando il fine della produzione e della distribuzione su grande scala è in realtà principalmente solo quello di ottenere un alto margine di profitto.

Si può comprendere bene che alla base di questo agire è assente, o quasi, qualsiasi tipo di etica. E questo stesso agire comporta a mantenere una grande distanza tra chi produce e chi consuma, e di certo non incentiva la creazione di relazioni di fiducia, di solidarietà e di partecipazione.

Una pratica invece che, ad esempio, coglie l’essenza della coltivazione biologica e ci intreccia qualcosa in più, è l’agricoltura sociale. Questa pratica, oltre all’inclusione sociale dei soggetti “deboli”, a rischio di marginalità sociale, attraverso il reinserimento lavorativo e percorsi di valorizzazione della persona, spinge a ricordarci che siamo tutt’uno con la natura e che non possiamo prescindere da essa.

La cosa interessante, è che nel modello agricolo sociale, le varianti aumentano a seconda dei contesti e delle persone che ci interagiscono, al fine di ridurre od eliminare i pesi gerarchici. Produzione sostenibile, condivisione, interazione, valorizzazione dell’attività e della crescita dell’individuo, sono gli ingredienti dell’agricoltura sociale e tutto si potrebbe riassumere nel concetto di multifunzionalità.

L’agricoltura sociale cerca infatti di mantenere un approccio olistico ai problemi, dando vita a soluzioni e pratiche spesso efficaci, dal punto di vista sociale, ambientale ed economico. A livello locale c’è bisogno di tornare a relazionarsi, di coltivare dialoghi di valore e di costruire comunità sostenibili e inclusive. E questo sta già accadendo, in tutto il mondo, l’agricoltura locale, biologica e sociale, nelle sue varie espressioni, come fattorie sociali, cooperative sociali, orti urbani, sta cominciando ad incidere sull’economia reale e sul tessuto sociale.

Che conclusioni si possono trarre? Stiamo parlando di una goccia nell’oceano? Di una pia illusione? Dell’ennesima rivoluzione “colorata”? Il modo più prudente, forse, di porre e affrontare la questione è quello di iniziare a renderci conto che siamo davanti a dei dati di fatto, a dei cambiamenti, a dei risultati.

Un processo che si sta sviluppando, lentamente certo, ma inesorabilmente, al punto che si può azzardare che tutto ciò stia mettendo in moto un circolo virtuoso a livello globale, trasmettendo la speranza che un’altra visione della società è possibile. Seppure si tratti di progetti locali, sempre più, esperienze di comunità dall’altra parte del mondo, ispirano nuove progettualità in altri paesi. Sono progetti che necessitano di calarsi nelle peculiarità territoriali, ma ispirarsi a vicenda è anch’esso un motore verso il cambiamento.

In alcuni casi, inoltre, la spinta dal basso sta spingendo anche verso la discussione e l’attuazione di politiche connesse al cibo e all’agricoltura urbana che riconoscono l’importanza di queste esperienze, preservandole e implementandole.

Si faranno degli errori, si finirà in vicoli ciechi, si procederà per tentativi, in alcuni casi si registreranno forse dei fallimenti, ma il progresso, quello sano, quello ideale, è costellato di tentativi, di ricerche, di tenacia, di entusiasmo e, soprattutto, di coraggio e del sapersi mettere in gioco. Perché c’è tutto da guadagnare. E poi, si dice che solo chi sta fermo non sbaglia mai.

Giorgio Masili

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